“(S)Legati”: intervista a Fabris e Bicocchi



a cura di Francesca Perissinotto

ComoLive
L’articolo pubblicato presso ComoLive

(S)Legati, in scena a Figino Serenza il 9 gennaio 2015, racconta l’incidente di Simon Yates e Joe Simpson, che nel 1985 scalarono gli oltre 6300 metri della parete ovest del Siula Grande, nelle Ande peruviane: durante la discesa, Simpson si rompe una gamba e, nonostante gli estremi tentativi di Yates per salvarlo, quest’ultimo è costretto a tagliare la corda che li teneva uniti, legati, sicuro di condannare l’amico ma consapevole di fare l’unica cosa in grado di salvare almeno uno di loro. Da anni Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi rappresentano questa storia, condividendola con il pubblico nei teatri e in quota, nei rifugi.

La domanda è d’obbligo: pensando anche ai vostri percorsi, vi reputate attori o alpinisti?

Jacopo: Io facevo l’architetto, ma non ero contento. Devo ringraziare una ragazza di Genova: un giorno, andandola a trovare, ho trovato il bando del Teatro Stabile di Genova e, visto che mi mancava un solo esame per laurearmi, ho detto: “provo, alla Scuola. Se mi prendono posso concedermi un anno per capire se voglio fare questo mestiere, altrimenti vuol dire che devo fare l’architetto nella mia vita”. La vita mi ha detto che non dovevo fare l’architetto e dovevo concedermi qualcos’altro. Così ho incontrato per la prima volta la passione per qualcosa, e penso che questa sia la cosa importante – non la passione di recitare, ma la passione di qualcosa. La passione che ti fa svegliare la mattina, che ti fa venire delle idee, ti fa soffrire e stare nella sofferenza per cercare dei momenti di gioia. E questa è la mia esperienza – poi mi sono diplomato a Genova e poi ho incontrato Mattia, e lì è cominciata un’altra storia.

Mattia: Quando ero bambino mia zia mi aveva chiesto che cosa volessi fare da grande e io le avevo detto “il saltimbanco”, e ci credevo. Mi è sempre piaciuta l’idea di fare teatro. Dopo il liceo quindi mi sono iscritto all’Accademia di teatro, ma la cosa importante è che dopo l’Accademia ho fondato una Compagnia a Milano, che si chiama A.T.I.R. [Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca], che ormai ha vent’anni. Mi sono formato con quella Compagnia lì, che è stata un’avventura umana importante, che ancora vive.

Questa sera avete raccontato una storia molto particolare. Come siete venuti a conoscenza di questa storia? Ma soprattutto: perché raccontarla?

J: Siamo venuti a conoscenza della storia grazie al fratello di Mattia, appassionato di montagna, che aveva letto il libro di Joe Simpson (uno dei due alpinisti). Quando ci siamo conosciuti, io e Mattia, raccontandoci più o meno chi eravamo, ci siamo raccontati delle nostre passioni ed entrambi abbiamo detto “ci piace la montagna”. Così Mattia ha parlato della storia, “pazzesca, di questi due alpinisti che rimangono appesi alla corda”. E ci siamo appassionati di questa storia, abbiamo letto il libro e poi è rimasto un sogno nel cassetto, l’idea di raccontarla.

M: Perché raccontarla? Questa storia ci ha colpiti perché, pur essendo una storia di alpinismo (quindi molto settoriale, apparentemente), in realtà ha dei contenuti totalmente universali. Quello che poi, più di tutto, abbiamo voluto sottolineare è l’aspetto del legame – e infatti il titolo è “(S)Legati”. Perché quel gesto lì, che apparentemente uccide, in realtà è il gesto che salva la vita a entrambi. Noi subito abbiamo pensato alle storie d’amore – quando ci si separa, quando uno lascia l’altro, e dice “lo sto uccidendo”. E poi in realtà dopo un anno quei due lì hanno due vite fantastiche, con dei figli, tutti felici e contenti. Alle volte, tagliare è una cosa che devi essere proprio costretto a fare, ma è quello che ti slava la vita. Questo ci aveva colpito moltissimo. E poi dentro c’è il raggiungimento di un obiettivo, la perseveranza, è una storia piena di valori che noi reputiamo universali. È una storia così grande che diventa epica e quindi ci si può riconoscere in questa storia. Il Teatro ha bisogno di storie nelle quali ci si possa riconoscere, che sono in qualche modo paradigmatiche, che possano contenere le nostre piccole storie. Questa è una di queste storie.

Il tema del legame è incarnato infatti dalla corda, l’unico elemento scenografico. Pensando all’allestimento, la scenografia è completamente vuota, nel buio, tranne che per i pochi elementi di luce (il frontalino e i riflettori puntati sugli attori). Per quale motivo avete pensato a questa realizzazione?    

M: Un po’ è una poetica. Noi a volte portiamo lo spettacolo nei rifugi in montagna; una delle più belle location che abbiamo avuto è stato sotto l’Adamello, in una giornata di sole, con l’Adamello innevato dietro di noi, era come un fondale. Per cui dici “bellissimo, meraviglioso”. Però, l’Adamello è alto 3600 metri, non è neanche paragonabile al Siula Grande. L’Adamello era sbagliato come scenografia per questo spettacolo. E qui è la poetica: non c’è nessun elemento che possa mostrarti il Siula Grande. C’è un modo per fartelo immaginare. E il Siula Grande che ti immagini tu è più bello di tutti i Siula Grande che noi ti possiamo mostrare – così come il crepaccio. Il Teatro è come un libro: ti chiede di immaginare. Pennac dice che un libro è un’opera incompiuta; finisce quando lo legge qualcuno. Ed è uguale per il Teatro. Noi abbiamo cercato di evocare e di fare immaginare al pubblico le cose che noi raccontiamo. Quindi non servivano grandi elementi, se non alcuni elementi che però sono simbolici: la corda, che è il terzo attore di questo spettacolo. D’altra parte invece è una scelta funzionale: quando dovevano fare la tournée nei rifugi, non potevamo portarci l’Adamello nello zaino. Una corda sì.

J: C’è stato un momento in cui stavamo mettendo in prova lo spettacolo e avevamo imbracature, moschettoni. Li abbiamo provati, ma a un certo punto ci siamo accorti che provavamo delle cose (aggancia di qua, mettiti là), ma tutto questo non serviva. Era troppo. E abbiamo iniziato a togliere. Togliere, togliere, ed è rimasta la corda. Tra l’altro, quando finiamo lo spettacolo la presentiamo sempre alla platea, come se fosse il terzo attore, il nostro terzo compagno. Non è neanche quasi più un elemento scenografico.

M: Infatti non abbiamo neanche più mai cambiato quella corda. Che poi è stata usata veramente per arrampicare: è una corda usata, da persone che noi conosciamo. Ha una storia, quella corda lì.

Teatro e montagna vivono di due atmosfere completamente diverse. Come possono comunicare tra loro?

M: Non è vero che Teatro e montagna sono due luoghi totalmente diversi. È un assunto che noi ci siamo accorti essere infondato. Purtroppo, sono due luoghi completamente diversi, ma non lo sarebbero in realtà: la montagna è un luogo in cui esiste una comunità. E anche il Teatro. La montagna è un luogo di relazione, e infatti in montagna quando incontri qualcuno lo saluti. Prova a farlo per strada e ti daranno del pazzo. Il Teatro è il tempio della relazione. La montagna è un luogo dove confluiscono delle storie, e infatti siamo pieni di libri sulla montagna, sull’alpinismo. La montagna è un imbuto di storie – all’incontrario però. Se vai in un rifugio è impossible che a un certo punto qualcuno non ti racconti una storia, piccola magari, breve, rocambolesca – non è importante, però a un certo punto qualcuno racconta una storia. Il Teatro è il tempio della narrazione. E poi in montagna ci sono silenzi. Anche oggi, in Teatro, a un certo punto si è costruito un silenzio, il Teatro è il luogo del silenzio. Il silenzio è la casa delle parole. Quindi il teatro e la montagna hanno tantissimo in comune, in verità.

J: Poi ci siamo anche accorti che il lavoro sociale che in questo momento dovrebbe fare il Teatro, in questo momento fa fatica. A meno che non ci sia una comunità, come qui a Figino Serenza ad esempio, dove c’è una Compagnia di tante persone che lavorano nel territorio in un determinato modo, quindi c’è della gente che si affeziona a un luogo, a voi, non solo vedendo uno spettacolo ma anche vivendo, gustando giorno per giorno, allora il Teatro riesce a fare quella cosa di relazione che non è fine a se stessa, di una sera. Non è una storia, ma un intreccio di storie. La montagna questo lo fa naturalmente. I teatri dovrebbero riuscire a recuperare quella forza, che adesso manca, non c’è in questo momento, e invece c’è in montagna. Questo è stato utile per capire che probabilmente adesso, per noi che facciamo questo lavoro come professionisti, è importante, siamo obbligati a uscire di casa, per fare il nostro lavoro. Per andare a ricercare le persone. Perché poi fondamentalmente la cosa importante è questa: incontrare le persone. In montagna ci si incontra.

La storia di Yates e Simpson quindi, potrebbe essere perfetta per raccontare un incontro, un legame appunto, anche nei confronti del pubblico.  

M: Oggi abbiamo fatto una cosa, scientemente. Quando lavoriamo nei rifugi loro ci danno una cachet: parte è data cachet, e il resto del cachet è a cappello. Questo significa che noi stiamo lì mentre il pubblico esce, e salutiamo tutto il pubblico. Oggi qui non abbiamo fatto a cappello, ma poi noi ci siamo seduti lì in proscenio, e abbiamo salutato tutto il pubblico. E questo non capita quasi mai: gli attori poi vanno in camerino. Anche noi abbiamo questa formazione. “(S)Legati” ci ha insegnato che può non essere così, che poi si può rimanere lì.

J: Come l’inizio dello spettacolo, noi non usiamo il sipario e stiamo lì, ci scaldiamo. Come dire che il Teatro, la storia, la facciamo insieme. Non è che si apre il sipario e allora inizia: siamo noi, persone.

M: La storia la facciamo insieme, e questo in montagna accade. Questo è importantissimo. Uno magari dice “beh, ma quei due [Joe Simpson e Simon Yates] non li conoscevi neanche”. È vero, e nello stesso tempo non lo è.

J: Noi, attori, pubblico, questa sera ci siamo conosciuti grazie a una storia. E adesso siamo qua, ci raccontiamo, e ci guardiamo in faccia e ci conosciamo un po’ di più, tramite un veicolo, che è lo spettacolo. Questo è magnifico.

M: Non c’è un altro mezzo di comunicazione oggi in grado di fare questo. Ovvio che il teatro è più impegnativo, non dici “che cosa facciamo stasera? Andiamo in teatro”, no. Perché è impegnativo, è come la montagna. Ti chiede presenza, anche al pubblico chiede presenza, perché c’è una relazione umana. Al cinema puoi fare altro e gli attori non si offendono: puoi tirare popcorn allo schermo e Edward Norton non si ferma, va avanti benissimo. Invece in teatro se mi tiri delle cose addosso mentre recito, devo fermarmi. Questo richiede al pubblico un impegno che non è evasivo, ma è, al contrario, impegnativo, cioè ti ingaggia in una relazione. Però è preziosissimo quell’ingaggio, è quello che ti fa sentire vivo. E infatti a Teatro il pubblico può dire “io c’ero, quella sera in cui Mattia e Jacopo si sono seduti sul proscenio”. Al cinema non puoi dire “io c’ero. Io c’ero quando Edward Norton ha fatto la scena”. Sei matto? Non c’eri. E questo cosa vuol dire: “io c’ero” lo dice qualcuno che ha visto un incidente, un grande evento, un testimone. Un testimone ha un ruolo attivo nel rito. Non ha un ruolo passivo. E questa attività che è richiesta allo spettatore è uno sbattone, non è che dici “stasera mi rilasso, andiamo a teatro”. Ma è allenamento: noi siamo disabituati perché tutto ormai ci viene fornito in modo molto accattivante, basti pensare alla tecnologia. Siamo circondati da una fruizione di storie, però non impegnativa. Il nuovo zapping è la timeline di Facebook, che è uno strumento apparentemente relazionale ma non lo è – è uno strumento evasivo, che mescola l’evasione alla relazione, è un pasticcio dal punto di vista emotivo.

Un’ultima domanda: voi portate avanti il progetto di Teatro in quota, quindi mettere in scena lo spettacolo nei rifugi e in montagna, per parlare della montagna. Perché?

M: per le ragioni che abbiamo detto, ci interessa portare il Teatro in montagna. All’inizio pensavamo che fosse importante portare una storia di montagna: “dove la facciamo? Beh, in montagna”. Adesso ci siamo accorti, per tutte le ragioni di cui ci siamo detti fino adesso, che la montagna è un buon luogo per raccontarsi delle storie. Semplicemente, non è pronta – pensa a portare Amleto in un rifugio. Però, se porti (S)Legati, e il rifugista si accorge che beh, è figo il teatro, l’anno dopo, magari un giorno, puoi fare Amleto.

J:  È un passaggio.

M: È come dire: noi, facendo (S)Legati nel rifugio, siamo nel momento in cui tendi la freccia. Speriamo che un giorno la gittata della freccia sia fare Amleto in un rifugio. Perché è un buon luogo. Genet diceva che i teatro andrebbero costruiti dentro i cimiteri. Diceva: “immaginatevi il Don Giovanni fatto dentro a un cimitero”. La gente, dopo lo spettacolo, sarebbe più in silenzio e avrebbe un rapporto con quel luogo molto diverso, rispetto al frivolo vocio del dopo-teatro. In un cimitero, entri con un silenzio, ed esci con un silenzio. Io ho sempre pensato a questa cosa senza capirla veramente; da quando abbiamo fatto il Teatro in quota, mi sembra di capirla di più: è ancora possibile una ritualità, è ancora possibile concedere un tempo e un luogo a quell’evento, a quel rito. Perché poi il Teatro è un rito, nei gesti che si ripetono, nelle aperture, nelle chiusure, ha un inizio, una fine, ha degli officianti, dei testimoni. È un rito, laico, grazie a Dio.