La Recensione: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”



a cura di Francesca Perissinotto

 

Continua la programmazione estiva di eventi in Villa Ferranti. Il sabato sera del parco storico si illumina nelle luci e nelle atmosfere di Teatroindirigibile: a grande richiesta porta in scena la replica di “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, tratto dall’opera di Wilde, per la regia di Renzo Mariani.

Le vicende raccontate sono quelle di due giovani scapoli londinesi, Algernoon Moncrieff e Jack Worthing, i quali inventano terze figure inesistenti per scappare rispettivamente l’uno in campagna (per curare il malato amico Bunbury) e l’altro in città (per salvaguardare lo scapestrato fratello Ernesto, di cui assume l’identità in città) e prendersi così una pausa dai doveri della vita. Due donne entrano però nella loro routine. Jack si innamora infatti dell’elegante Gwendolen Fairfax, cugina di Algernoon, alla quale chiede la mano sotto il nome di Ernesto. Contemporaneamente, Algernoon scopre l’esistenza della giovane e frivola pupilla di Jack, Cecily, alla quale chiede anch’egli la mano, ma alla quale si presenta come il fratello sbandato di Jack, Ernesto. Il nome assunto dai due giovani diventa condizione necessaria del loro matrimonio. Dopo una serie di vicissitudini, si scoprirà che Cecily, seppur giovane e poco elegante, ha la dote –in senso pecuniario, ovviamente – necessaria all’approvazione dell’unione da parte della zia Augusta, madre di Gwendolen, e che in realtà Jack è il fratello un tempo smarrito di Algernoon, ed il suo vero nome è Ernesto. I quattro ragazzi riescono quindi a sposarsi.

La messa in scena di TeatroIngirigibile coglie in pieno lo spirito squisitamente decadente ed autoironico dell’opera originale, fondata su nonsense e giochi di parole a riflesso del gioco di maschere e del materialismo tipici dell’alta società inglese di fine Ottocento.

Si distinguono in particolare i ruoli protagonisti maschili, affidati a Stefano Livio (Algernoon) e Giovanni Viizzo (Jack). Lo stile declamatorio adottato da Stefano Livio incarna pienamente il personaggio di Algernoon, personificazione del dandy attento a mangiare, giudicare, apparire(non a caso Zia Augusta dirà: “Algernoon è un ottimo partito: e lo è in modo evidente, addirittura ostentato. Non ha niente ma sembra tutto. Che cosa si può desiderare di più?”). Giovanni Viizzo adotta invece uno stile recitativo più contenuto in conformità al personaggio più razionale interpretato; lo sfruttamento frequente del proscenio gli permette di rivolgersi direttamente al pubblico, coinvolgendolo con esiti positivi nelle sue esitazioni e nei suoi incontri con Miss Gwendolen.

Attenzione speciale meritano la scelta della scenografia e l’uso del palcoscenico. Per quanto concerne la prima, la povertà di uno sfondo bianco accompagnato da pochi complementi d’arredo nasconde due missioni per precise. In primo luogo, la retorica e l’energia dello scambio dibattute colmano pienamente lo spazio scenico, rendendo superfluo ed evitabile qualsiasi ulteriore arricchimento; in secondo luogo, la visione registica di Mariani è encomiabile nella scelta di ricorrere allo sfruttamento del palco su diversi piani di profondità. La soluzione risulta particolarmente felice sia per il significato simbolico che assume nella vicenda (la realtà di apparenze descritta nelle commedie leggere di Wilde è invero un realtà proteiforme,intuibile solo nella capacità di andare oltre ciò che si presenta davanti all’uomo in prima istanza), sia nel rendere più articolate le scene, la cui apparente maggiore complessità di lettura sfocia poi in risvolti ironici e divertenti, che permettono al pubblico di tirare un respiro di sollievo distraendosi dal serrato scambio di battute di Wilde.

Assume quindi significato notevole, in quest’ottica, la scelta di inserire una parte cantata nella recitazione. Nel tentativo di ottenere il perdono delle due fanciulle a seguito della falsa dichiarazione dei loro nomi, Algernoon e Jack si esibiscono in una sorta di implorazione di scuse melodica che colpisce il pubblico, provocando il tipico senso di straniamento, e facendolo per l’appunto riflettere ulteriormente sul tema portante dell’opera: nel momento in cui i ragazzi si interrompono, le ragazze enucleano le loro superficiali riflessioni così sottolineate ulteriormente – ciò che conta è apparire; l’importante non è la verità e la profondità del sentimento, quanto il mantenimento della maschera, del pubblico– l’importante non è la persona, ma il nome.

Nome, quello del Teatroindirigibile, che in effetti diventa sempre più importante: specularmente garanzia di una qualità crescente derivante dallo strenuo lavoro di appassionati per il teatro in ogni sua forma. Il tutto coronato in un connubio vincente tra arte e territorio nella location storica, emblema di Figino Serenza – segno di un’attenzione tangibile nel tenere vivo il legame tra Comune e Comunità.