La Recensione: “Arlecchino servitore di due padroni”



a cura di Francesca Perissinotto

 

Con la proposta di “Arlecchino servitore di due padroni” aprono ufficialmente le celebrazioni per il ventesimo anniversario di Teatroindirigibile: lo spettacolo, per la prima volta in rassegna nel 2008, ci porta ad affrontare, con un sorriso, il tempo passato.

Il rapporto con il tempo sembra in effetti essere la chiave della messa in scena, a partire dalla vicenda ricalcata sulla più tradizionale Commedia dell’Arte: si individuano tre filoni narrativi, caratterizzati dalla presenza di due giovani innamorati, ostacolati nella loro unione. Se, da una parte, Florindo non può sposare la sua Beatrice perché costretto a fuggire da Torino, nemmeno Clarice potrà sposare il suo Silvio, perché insidiata dalla presenza del suo promesso, creduto morto, Federigo Rasponi; d’altronde, persino il servitore Arlecchino si innamorerà della sua Smeraldina. Il lieto fine è d’obbligo, sebbene si snodi tra gli imbrogli di Beatrice (spacciatasi per Federigo, in realtà deceduto) e le confusioni di Arlecchino, in segreto servitore allo stesso tempo di Beatrice e Florindo.

L’interpretazione critica del testo goldoniano forse più importante nella storia del teatro italiano, e non solo, è incarnata dalla regia di Strehler, ideata nel 1947 e portata a definizione nel 1956, nella sua terza edizione. Secondo Lunari, cardini di quella messa in scena sono la ricostruzione filologica di un modo d’essere teatrale (la commedia dell’arte, appunto) e la riproposizione di quel modo d’essere nel contesto dell’attualità. L’intuizione geniale del regista del Piccolo sta infatti nel portare sulla scena non le vicende degli amanti, quasi pretesto scenico, ma la vita stessa dei comici dell’arte: il palcoscenico diventa il banco o palchetto di legno su cui erano soliti esibirsi nelle piazze italiane; compare il suggeritore, attivo sulla scena; gli attori salgono e scendono dal palco, dallo spazio antistante il palcoscenico osservano lo sviluppo dei fatti, chiacchierano, si tolgono la maschera e permettono la transizione del pubblico da spettatori a parte attiva della messa in scena.

Motore dello spettacolo sono il ritmo serrato e la bravura delle maschere tipiche: Pantalone (Marco Normanno), il Dottore (Matteo Gugliotta) e Arlecchino (Roberto Orsenigo), impersonati dagli stessi attori che calcarono il palco sei anni fa. I tre si distinguono per la fluidità del discorso, nonché per la competenza nella recitazione priva della mimica facciale, ma pienamente espressiva nel corpo e nella voce. Il duro lavoro nella preparazione è evidente nella perfetta sincronia dei personaggi nei movimenti scenici; il talento si esplica, per ognuno di loro, nella naturale appropriazione dei linguaggi teatrali: è la loro naturalezza, disinibita, a trasportare il pubblico all’interno della scena, rendendo vive le maschere stesse.

Pur nella reverenza al maestro Strehler, dichiarata nel secondo atto, Mariani prende alcune distanze dalla regia storica, propendendo per una visione più contemporanea dello spettacolo. Si mantiene il rispetto filologico del testo, declinato nei vari dialetti tipici delle maschere, così come sono i rispettati i costumi tradizionali e i lazzi tipici, resi grandi dal Soleri. Oltre alla distinzione in due atti, anziché negli originali tre, Mariani decide di intervenire anche sulla scenografia: non più rappresentazioni dipinte degli ambienti, comunque citati dal suggeritore prima di ogni scena, ma un non-luogo evocato attraverso tele dipinte a schizzi di colore, che coprono il fondo del palco e le quinte. Già carica del caleidoscopio di talenti e del ritmo frenetico in cui la voce degli attori diventa tutt’uno con le risate del pubblico, la scena propone perciò anche visivamente quella confusione, quel miscellaneo scontro di umanità ingenua. Non solo: il regista sembra suggerire, estraniando il testo dal suo contesto fisico, l’eternità della rappresentazione. Non si tratta più di uno spettacolo della commedia dell’arte proposto nel giorno d’oggi, ma di una parentesi, di un’occasione del pubblico di calarsi fuori dal tempo, all’interno dello spazio sacro del teatro.

Forse, in definitiva, è proprio questa la riflessione che Renzo Mariani vuole regalare al pubblico: il teatro è tradizione, ma è anche strumento vivo dell’humanitas comunicante; la compagnia di Teatroindirigibile non perde la sua capacità di coinvolgere e dare vita a quello strumento; il tempo è qualcosa che resta fuori da una sala teatrale.