a cura di Francesca Perissinotto
I protagonisti, ragazzi dai 6 ai 15 anni, si ritrovano in un teatro abbandonato. Lì, la scoperta di alcuni oggetti di scena e di un copione, trovato tra le macerie delle rappresentazioni passate, farà nascere in loro l’idea di uno spettacolo – così, per provare.
Una narratrice (Ludovica M.) accompagna il pubblico in Inghilterra, dove comincia la storia del GGG. Sofia (Clara T.) è una bambina, che come tante non riesce a dormire. Ciò che vede dalla finestra della sua stanza dell’orfanotrofio, però, cambia la sua vita per sempre: a guardarla, dall’altra parte del vetro, ci sono un faccione rugoso e due grandi occhi scuri; una mano, grande quanto la stessa Sofia, entra nella stanza e prende la bambina. L’inizio di un racconto dell’orrore si trasforma poi nella storia di una grande amicizia. Mentre il GGG (Lorenzo C.), gigante vegetariano per principio, troverà un’amica e qualcuno che davvero creda in lui, Sofia scoprirà per la prima volta il calore di una persona che si preoccupa per lei; insieme, i due riusciranno a fermare la follia famelica degli altri Giganti, che ogni notte provocavano la repentina scomparsa di decine di “popollani” in tutto il mondo, divenuti la loro cena. La gioia della vittoria per la loro impresa si mescola ai festeggiamenti dei ragazzi che, scivolando dalla fiaba al teatro abbandonato, scoprono che il copione da cui erano partiti sta cambiando: i loro nomi cominciano a comparire tra gli attori citati sulla carta. “È normale”, dice il custode del teatro: “quella storia, voi, l’avete davvero vissuta”.
L’intera rappresentazione gioca in effetti sulla comunicazione metateatrale e sulla rottura della quarta parete, che contribuiscono a trasportare il pubblico nel vivo di un fatto d’arte e di vita. I costumi e le scene, in effetti, sembrano proporsi come i due poli di questo gioco di realtà: i costumi canonici dei giganti, della Regina d’Inghilterra e dei militari, propongono al pubblico la concretezza della fiaba, visibile e paradossalmente reale; la scenografia, ottenuta attraverso strutture di legno nude, assemblate diversamente nelle diverse scene, sembrano invece ricordare al pubblico che in realtà non solo siamo a teatro, ma stiamo anche assistendo alla rappresentazione di quei ragazzi che per passione hanno deciso di dare vita ad un copione trovato per caso in una sala teatrale.
La dicotomia tra le due dimensioni suggerisce la posizione dei registi: i ragazzi non stanno recitando davvero. Sul palco ci sono i giovanissimi che ogni settimana, con impegno, testano la loro competenza, la loro sensibilità e si sforzano di imparare gli strumenti di un’espressione artistica, in grado di renderli fin da ora consapevoli della propria voce.
La scelta del testo, non semplice, sembra infatti ricondursi alla fiducia di Livio e Solenne nella capacità di questi giovani attori. Lorenzo, in particolare, entra perfettamente nel personaggio del Gigante Gentile, proponendo con naturalezza il suo linguaggio caratteristico e la disinibita spontaneità. Colpisce la dolcezza della giovanissima Clara, che come la piccola grande persona disegnata da Dahl dimostra tutta la forza della genuinità, saggia, dei bambini. Spiccano anche le figure dei Giganti, la cui forza espressiva scuote il pubblico, cooperando nell’effetto di coinvolgimento dato dalla rottura della quarta parete.
Ciò che prende vita sul palco figinese non è, quindi, solo la riproposizione de “Il GGG” di Dahl. Si racconta piuttosto una favola circolare, non conclusa e per questo viva: il teatro è un pretesto e uno strumento di espressione attraverso cui i ragazzi possono confrontarsi con le loro esperienze e con l’inizio consapevole della costruzione di un’identità. Al pubblico, l’energia autentica dei giovani interpreti regala la partecipazione ad un sogno, diverso da quelli del GGG: la nascita di nuovi individui.