La Recensione: “Nel bel mezzo di un gelido inverno”



a cura di Francesca Perissinotto

 

Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori:essi hanno le loro uscite e le loro entrate;
e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.
Shakespeare, “As you like it” (1623)

La celebre citazione shakespeariana riassume perfettamente l’anima di “Nel bel mezzo di un gelido inverno”, portato in scena dal regista Renzo Mariani il 12 e 13 aprile sul palco figinese.

L’ironica mise propone infatti due intense settimane di vita dell’attore Joe Harper, disoccupato da un anno, che decide di rimettersi in gioco allestendo una versione “libera e sperimentale” della tragedia per antonomasia “Amleto”. Problemi finanziari e un ritmo incalzante fanno da sfondo alla crescita, artistica e personale, di una compagnia improvvisata, eterogenea e decisamente sopra le righe. Ciò nonostante, sul palco (o meglio, dietro le quinte) i personaggi si scontrano e misurano con i loro problemi: dal confronto e dalla comprensione di altre soggettività, allo stadio finale dell’accettazione di sé stessi.

Parlo qui di “stadio finale” perché gli attori, andando “in-contro” al loro debutto, in realtà subiscono e insieme si fanno motori di un processo di metamorfosi ben scindibile in tre momenti definiti.

Il primo momento è quello del provino, caratterizzato dal sentimento del conflitto. Nel tentativo di entrare nella compagnia di Harper, diversi personaggi si presentano alle audizioni e riversano regista, assistente e pubblico della loro personalità. Già a partire da questo momento, però, emergono i tratti forse più superficiali e spinti delle identità dei caratteri, indici tuttavia di un dissidio irrisolto con una parte latente, non compresa o volutamente ignorata, del loro essere. Cito un solo esempio, lasciando il pubblico libero di cogliere la dualità negli altri personaggi. È appunto il caso di Nina (Linda Bosa), che da timida e maldestra, introversa e forse un po’ ingenua attrice dilettante alle prime armi, si propone con “una canzone che le ricorda Ofelia”: una scalmanata “Like a virgin” di Madonna che riempie il palcoscenico di una gioia e una libertà pretese. Il conflitto si esplica quindi non solo in due lati estremi di uno stesso personaggio, ma soprattutto nella loro non-comunicabilità, ben espressa dal fatto che tutti i provinanti che entreranno poi in Compagnia in realtà scappano una volta finita la loro performance, senza aspettare (temendo?) il giudizio del regista.

Il secondo momento è quello della lettura integrale del copione. Per contrasto, qui gli artisti si dedicano per la prima volta al testo shakespeariano, integrale o “sacro” (come verrà definito ironicamente); anziché entrare nei caratteri danesi, entrano in loro stessi: da composto intorno ad un tavolo in una prova rigorosamente no-smoking, attraverso stacchi successivi il gruppo perde forma e i protagonisti si immergono nella vita di compagnia e nella preparazione dello spettacolo, sdraiandosi direttamente sul palco e inondandolo di fumo. Abbiamo qui il primo passo verso l’esplorazione delle proprie individualità.

Il momento finale della metamorfosi, l’accettazione, esplode in realtà silenziosamente in una molteplicità di sequenze, ognuna dedicata ad un singolo carattere. Propongo anche qui un solo caso. Terry (Stefano Livio), omosessuale interessato ad interpretare la “laida Gertrude”, durante la sequenza del dialogo con Amleto e dell’uccisione di Polonio depone la sua protezione di aggressività sessuale per svelare il suo dramma: ha un figlio, visto una sola volta ma amato profondamente, il cui giudizio è in realtà l’unico punto di incertezza di questo personaggio fortissimo.

Renzo Mariani dirige magistralmente l’insieme di tutti questi singoli percorsi, offrendo come sempre una chiave di lettura al pubblico attraverso la sua scenografia. Composta di strutture nude, in legno, ben accoglie la crescente complessità dei personaggi: se Joe apre il sipario, nel primo atto, mostrando una letterale montagna di oggetti sul palcoscenico, man mano che gli autoinganni dei personaggi si snodano vediamo gli spazi pulirsi, fino ad arrivare all’essenza dell’unico palco in legno grezzo nel centro della scena. In tutto questo, le verità degli attori sfruttano il linguaggio teatrale per esprimere sé stessi (caso già citato è quello di Terry, che nel suo momento di confessione viene illuminato da un occhio di bue): è la maschera teatrale che ci permette di deporre la maschera della vita, obbligandoci a prendere coscienza del nostro vissuto per “usare la realtà” nella recitazione. A riprova di ciò, gli attori caleranno, in una delle molteplici profondità del palcoscenico sfruttate dal Mariani, il fondale nero che coprirà altre strutture in legno; un invito, forse, a cercare nel confronto con gli altri la soluzione a una prigione di riflessi della solitudine, appunto immagini non-reali.

Le risate e gli applausi, interminabili, avvolgono questo spettacolo in una maggiore leggerezza ed in un forte bisogno di autoironia. E in fondo:

Perché devono vedere tutti il dietro le quinte oggigiorno?Dove è andato a finire il fottuto mistero?
Tom, Nel bel mezzo di un gelido inverno